Città Invisibili

Series of graphic artworks based on Italo Calvino homonymous book.

The works have been realized in mixed technique, serigraphy print plus watercolour, and have been presented in 3 solo exhibition in 2012 /2013 (Pordenone, Trento, Padova)

Le città invisibili, quando vengono visitate da un illustratore, per di più architetto, sembrano allo stesso tempo fare l’occhiolino e ritrarsi: da una parte offrono una miniera sterminata di riflessioni su un tema prediletto, dall’altra, si dichiarano fin dal titolo non visibili e quindi, se ne deduce, non raffigurabili. Quasi tutte queste folgoranti visioni, d’altro canto, non fanno che parlare della città che conosciamo, attraverso un continuo gioco di svelamento, e di ulteriore messa a distanza, attraverso delle immagini riflesse, ribaltate, sempre duplici. Questa caratteristica insita nella parola stessa di Calvino, nel suo elencare, edificare e poi cesellare

il testo per continue colature che inevitabilmente si sfaldano, si riaffaccia nel lavoro di Menotto attraverso la costruzione di un’immagine spesso barocca, ridondante, un collage di elementi disparati spesso organizzati su un asse che taglia e ribalta l’immagine. Calvino stesso d’altro canto ci dice che Marco più che parlare, per farsi comprendere dal Kublai Kan gesticola, salta, urla e tira fuori gli oggetti più disparati (piume di struzzo, cerbottane, quarzi, pesci salati…); Matteo allo stesso modo non disegna, ma prende, taglia, incolla, assembla immagini per suggerirci l’ineffabile esperienza dell’esplorazione dello spazio urbano. Ecco quindi che un castello di carte può sorreggere un fregio architettonico, una coppia di ballerini, un lampadario, alcuni uomini impiccati e una medusa, degli alberi, una sedia…per limitarci ad una sola delle illustrazioni, in un gioco d’associazioni e citazioni, libero come la scelta istintiva di seguire un vicolo piuttosto che un altro. Un continuo rimando al sopra e al sotto sembra invitarci ad andare oltre gli elementi dati, come i riferimenti alla Venezia di Marco, o alla Milano e alla Berlino di Matteo, e addentrarci nei meandri di un linguaggio visivo che ammiccando al web design e alla grafica pubblicitaria si pone l’arduo compito di fissare in immagini ciò che continuamente sfugge, la molteplicità degli sguardi, l’intrecciarsi di percorsi e scambi, in una parola: la vita di una città, e insieme di tutte le città.

Anche l’uso del bianco e del nero, del pieno e del vuoto, sembra rimare con la tecnica dello scrittore, che gioca a dire e poi smentire, a raccontare ciò che per sua ammissione dovrebbe omettere, in un gioco di specchi che evita lo sterile esercizio di stile aprendosi ad una visione del mondo regolata dal desiderio e dalla necessità dei rapporti umani; allo stesso modo, l’algida tavolozza dell’architetto si apre allo stupore del tramonto, e si lascia andare alla fluidità senza contorni dell’acquarello. Sopraelevate, rovesciate, appese, espanse, volanti, sotterranee, inaccessibili o sempre qui, lontane o dietro l’angolo, le città che Marco e Matteo ci descrivono rimangono in piedi finché chi le abita decide di uscire di casa, e vive la gioia dello stare insieme: l’unico tesoro che manca all’imperatore dei Tartari. Per questo ancora oggi Kublai Kan passa le giornate a sognarci disteso su pavimenti di maiolica, cercando di spingere lo sguardo oltre al muro del suo giardino di magnolie.

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